Ha ancora un senso la fotografia? | Settimio Benedusi | TEDxVerona
Chi non avesse voglia di guardare tutta la TED Conference di Settimio Benedusi può saltare direttamente agli ultimi dieci secondi, quando viene pronunciata la frase che mi interessa, e che in realtà qui viene ripresa da un altro passaggio della prima metà del video: si tratta in sostanza dello stigma contro le fotografie “delle pizze, dei tramonti e dei gattini” che a dire di Benedusi mortificherebbero “il grandissimo valore” della fotografia.
La cosa non deve aver colpito solo me, dato che la maggior parte dei commenti al video si è proprio schierata da una parte e dall’altra di questo concetto. Ne ho letto alcuni che si avvicinano a quanto sto per scrivere, ma pare che un elemento sia sfuggito o sia stato considerato poco importante dai più.
Partiamo da qui: ogni forma artistica usa in modalità ”contemplativa” un linguaggio che conosce anche un utilizzo “vernacolare”. La letteratura usa la stessa sostanza che viene usata per scrivere la lista della spesa o i messaggini su whatsapp; la pittura è una sorta di distillato asintotico degli schizzi che facciamo per disegnare una mappa o per abbozzare la forma della cucina dei nostri sogni per farla capire all’arredatore; la musica usa gli stessi suoni che noi usiamo per chiamare un amico o indicare al cane dove guidare il nostro gregge . Persino per la scultura e per l’architettura si possono trovare nella vita di tutti i giorni applicazioni che rappresentano una “vulgata” degli esiti artistici di queste discipline.
Per la fotografia (teniamo per dato che la fotografia possa essere una forma d’arte; su questo torneremo in altre occasioni) questa doppia vita era, fino a qualche anno fa, solo abbozzata. Nel corso dei 130 anni suonati passati dal “we do the rest” fare fotografie è diventato via via sempre più semplice, ma anche con l’avvento delle macchine digitali compatte, per fare fotografia c’era la necessità di dotarsi di un mezzo tecnico non pervasivo. Nella borsa della signora dei primi anni 2000 era probabile che non mancasse una penna, ma la macchina fotografica faceva parte di un “progetto”, di una “intenzione” che non era una cosa da tutti giorni.
Fino a quel momento, una parte rapidamente decrescente ma solida delle analisi di Pierre Bourdieu ancora reggeva1; oggi il suo saggio andrebbe riscritto – e speriamo che accada presto – a partire dal titolo: la fotografia oggi non è più “Un’Arte Media”, anche se si intende il vocabolo “arte” secondo la definizione classica di “disciplina che richiede una tecnica”, che poi era l’accezione in cui la intendeva Bourdieu. Oggi parleremmo forse di “un’attività media”, nel senso statistico del termine, vale a dire un’attività che mediamente tutti compiono. Anzi, credo si possa dire che con l’avvento della telefonia mobile – o forse sarebbe il caso di parlare di fotografia mobile, visto che gli smartphone di oggi sono, anche dal punto di vista del marketing, delle fotocamere con cui si può telefonare – la fotografia è diventata la modalità più spontanea di comunicazione.
Insomma con una traiettoria inversa rispetto a quanto accaduto finora nella storia, la fotografia ha attraversato lo spazio che divide l’arte dalla comunicazione. Ed è grazie a questo approdo che la fotografia è diventata la forma più compiuta di “linguaggio vernacolare”, che si sostituisce – sarebbe forse il caso di dire: finalmente – allo “stile vernacolare” che si è mosso sui sentieri della interpretazione nella traccia di fotografi come Walker Evans2.
Invece il mosaico dei milioni di fotografie stivate nelle memorie dei telefonini è forse la riproduzione più fedele mai realizzata del modo in cui l’essere umano vede il mondo e di cosa del mondo che vede gli interessa comunicare ai suoi simili. Certo, si tratta di un’attività estremamente dispendiosa dal punto di vista delle risorse impiegate e il suo grado di sostenibilità sarebbe tutto da determinare; ma sarebbe più produttivo considerarla per quello che è e per quello che può offrire per aiutarci a capire noi stessi, piuttosto che liquidarla partendo da un punto di vista che è semplicemente fuori asse con rispetto al fenomeno e alla sua natura. Sarebbe interessante cercare nuovi metodi per leggere ed interpretare questa miriade di informazioni, magari evitando di lasciarle in mano a coloro che sono interessati solo alle ricadute commerciali di queste analisi. Ciò che si sta facendo nel campo dei Big Data potrebbe offrire approcci adeguati all’interpretazione di queste enormi quantità di informazioni visuali.
Qualcosa in questa direzione è stato tentato da Lev Manovich, professore di informatica presso l’Università di New York, che con il suo team di ricerca ha analizzato le fotografie postate su instagram da cittadini di Kiev nei giorni della cosiddetta rivoluzione Maidan del 2014. The Exceptional and The Everyday: 144 hours in KIev, il sito dedicato al progetto, descrive le motivazioni, gli strumenti e i risultati, e alle sue pagine rimando per un approfondimento che vale il tempo che chiede. Qui ne riporto solo l’idea di base, che è la realizzazione di varie classificazioni del corpus di oltre tredicimila immagini postate sulla piattaforma social dal 22 al 24 febbraio 2014 non solo sulla base dei metadati delle immagini (data, ora, luogo di scatto/condivisione e hashtag) ma anche sulla base di alcune categorie plastiche (luminosità, distribuzione delle luci e delle ombre, tinta). Il tentativo è arrivare all’emersione di raggruppamenti che nell’abbozzare una “visione distante delle visioni individuali“ permettano di costruire “una cartografia del territorio delle immagini […] da intendersi come un’estensione a partire dalla quale diventa possibile generare delle regioni contrastate, persino opposte, o delle sovrapposizione o delle sovrapposizioni di immagini sul piano dell’espressione”3.
Capire come questo piano dell’espressione possa essere messo in comunicazione con un piano del contenuto, stabilire in altre parole le modalità con cui queste analisi possano pervenire ad una significazione è ancora un punto aperto, ma definire le relazioni di un’immagine con quelle che le affiancano all’interno di un corpus, individuare percorsi nella mappa del mondo che le fotografie continuamente costruiscono e disfanno è un primo passo nella strada che porta ad ascoltare e cercare di capire ciò che questa voce inaudita vuole dire.
Sempre meglio che oscurarla con le opinioni fossili degli esperti che trovano naturale suggerirle le parole da dire e le canzoni da cantare.
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- P. Bordieu, Un’arte media, ed. it. Meltemi Milano, 2018.[←]
- I. Lombardo, Walker Evans,il documentario lirico me Il Fotografo n. 296, Sprea Editori, Milano-2017. pag. 10), il quale comunque pensava a se stesso come ad un “artista”((L.Katz. Intervista a Walker Evans, 1971, ASX, consultato il 24/8/2022[←]
- M. G. Dondero, I Linguaggi dell’Immagine, Meltemi, Milano, 2020, pag.192.[←]