È, come dice John Berger, una questione di sguardi. Mentre ne cerca uno, quello dello spettatore, ogni immagine ne realizza un altro – quello dell’osservatore, che la fotografia fa coincidere grosso modo con il fotografo – e al suo interno ne istanzia altri che creano direzioni e vettori di forza lungo cui scivola l’esplorazione dello spettatore – tanto per chiudere il cerchio – e che determinano tanta parte del significato dell’immagine stessa. In tutto questo incrociarsi di occhiate la semiotica cerca di mettere ordine distinguendo ruoli e assegnando compiti e potenzialità di significato. Un apparato complesso che a Paolo Pellegrin capita spesso di sabotare ricorrendo con cruda poesia ad uno degli espedienti più antichi e allo stesso tempo più capaci di sorprese della storia della fotografia: il riflesso.
Anche se a volte, come in questo caso, è proprio l’autore a farne le spese. Qui sotto gli occhi dello spettatore l’osservatore svanisce, e l’espressione assorta e dolcemente malinconica della bambina diventa quella di chi guarda la scena e ne determina il sentimento. Nella direzione di questo sguardo che – probabilmente a causa della posizione di ripresa – sembra puntare nel vuoto, galleggia l’aria di rassegnata indifferenza di chi è assorto nella visione di un futuro già segnato e che si svolge sotto i suoi occhi in un punto inaccessibile al mondo che la circonda, al punto che il filo invisibile che congiunge attraverso lo sguardo l’uomo in primo piano alla donna sulla destra sembra attraversare questa visione senza toccarla.
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