Togliere luce ad una fotografia equivale più o meno a sottrarre l’ossigeno ad un essere vivente. La deprivazione dell’elemento vitale in entrambi i casi conduce all’oscurità ed in entrambi casi le traiettorie per arrivare alla tenebra sono tutt’altro che lineari. L’ipossia si manifesta con una sorta di vertigine lisergica, come sanno i paurosi e gli appassionati dell’amore dominato; l’immagine fotografica tende invece ad assumere un comportamento cangiante: dettagli si rivelano e si nascondono ad ogni inclinazione della stampa o dello schermo, ad ogni passo verso la lampada e ad ogni posizione delle stecche della persiana.
È come se nel momento della fruizione l’immagine reclamasse il saldo del debito di luce che ne ha segnato la produzione, una richiesta che pretende dallo “spectator” una relazione ottica che, per dirla con Greimas, trasformi da passivo ad attivo l’atto della visione; occorre insomma che si passi dal “vedere” al ”guardare”. Transito meno frequente di quanto si pensi, impegnati come siamo a scorrere senza tregua immagini digitali.
E qui infatti anche il medium dice la sua: non solo perché la retroilluminazione rimette in gioco le proporzioni tonali in ogni dispositivo, ma anche perché le foto in “chiave bassa”, così riservate e scontrose, non di rado subiscono prima della pubblicazione online una schiarita che garantisce una visione senza sforzi che le allontana dall’idea del loro autore.
E allora la cosa migliore per guardare le fotografie di Gilbert Fasteneakens, un vero maestro del silenzio fotografico, sarebbe bene avere davanti le stampe o le pubblicazioni, come il magistrale volume “Nocturne” da cui è tratta questa foto. Magari, dopo qualche secondo, quando i particolari inizieranno ad affiorare e le forme a farsi più chiare, potremmo scoprire che stiamo gettando uno sguardo anche dentro le nostre oscurità.