Se, come sosteneva Kant, l’esperienza estetica nasce da un libero gioco di immaginazione e intelletto, è perché in essa tra le due facoltà si innesca un dialogo in cui ciascuna porta un contributo indipendente e, a volte, in contrasto con l’altra. Nello sforzo di trovare un accordo, che intuiamo essere evocato dall’opera, siamo allora costretti a confrontarci con la distanza che la nostra “immagine” di un concetto segna rispetto alla conoscenza razionale e cognitiva che ne abbiamo.
Ad esempio, ciò che le conoscenze del mondo di cui disponiamo oggi ci permettono di dire sull’infinito è che il suo colore è il nero. C’è uno spazio – quello che si espande dietro l’ultima stella – e ci sarà un tempo – quando l’entropia si mangerà ogni forma usabile di energia – impermeabili ad ogni luce. Ma, allo stesso proposito, l’immaginazione ci racconta una storia diversa: l’infinito ha nel suo fondo una luce; quella che emana dalla creatura metafisica che ci ha immaginati e che ci chiamerà a sé, o, più laicamente, quella che ci permette di misurare gli “interminati spazi” che il Wanderer fissa nei dipinti di Johann Caspar Ferdinand Fischer.
Insieme a quella del cielo stellato, la vista del mare aperto resta forse l’occasione più comune di evocazione dell’infinito; la possibilità di gettare lo sguardo dove non c’è che lo spazio libero del cielo e del mare, che almeno in apparenza sembra resistere alla colonizzazione antropica e fissare un limite alle nostre traiettorie, costrette a fermarsi sul bagnasciuga e lasciare l’esplorazione alla sola vista. Che però ha bisogno di luce, quella che l’osservatore reclama per “illuminarsi di immenso”.
La fotografia del mare di Amalfi di Hiroshi Sugimoto, come anche di altre della sua serie sui “Seascapes” nega alla nostra visione questo attributo e ci pone di fronte alla profondità claustrofobica e infinita del buio, il vero colore dell’immenso. Riuscire ad illuminarsene per lo spettatore è uno sforzo che questi fotogrammi richiedono alle nostre facoltà, non diversamente da come fanno le tele definitive della Rothko Chapel a Houston. Un libero gioco che, parlandoci, dà pericolosa concretezza, e forse anche un senso, alla nostra ancestrale paura del buio, che, ora rischia di apparire come la ricerca di un esorcismo per la tenebra infinita che ci attende là in fondo, dopo l’ultima stella.
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