Non è certo la mezza dozzina di fotografie di Wilhelm von Gloeden, con le ninfette e gli scugnizzi nudi costretti in improbabili pose neoclassiche, a giustificare una recensione di questa mostra in un sito che si occupa di comunicazione fotografica. In realtà qui le fotografie più importanti sono quelle che non si vedono, ma è come se galleggiassero nell’aria delle sale delle Scuderie del Quirinale, e si riflettessero sulle superfici dipinte.
Le relazioni culturali tra Napoli e Parigi sono un elemento determinante nello sviluppo di ciò che si andava facendo in campo artistico sulle pendici della Montagna nel corso del XIX secolo. Anni che nella Capitale francese, attraverso la fotografia portarono ad un nuovo modo di vedere, che arrivò fino alle rive del Golfo.
E fu innanzitutto un nuovo modo di vedere la luce, catturata prima che l’iride umana la dilati e ne sfumi i contorni; incollata alle cose quasi per mezzo della tessitura delle superfici. Lame di luce che sembrano tracciare contorni netti che, avvicinato lo sguardo, si dileguano in segni vibratili e sfuggenti. Insomma vista attraverso lo sguardo “imparziale” dello strumento accreditato della capacità di raffigurazione più fedele, la realtà comincia ad apparire diversa da quella che sembrava essere; insospettabili sacche di astrazione, di informale cominciarono ad essere scovate nella stessa realtà più strutturata. Figura e astrazione, forma e informale iniziarono ad apparire come due facce della stessa medaglia: e così, Nella epocale tela di De Nittis, la campagna napoletana, tagliata dalla ferrovia e dal fumo della locomotiva che si spande sotto il cielo terroso, diventa la tela di una grande opera informale in cui le due figurine delle spigolatrici sono quasi costrette in un angolo. Un’opera che ricorda per certi versi quella del Cane Interrato di Goya; dopo sessant’anni la visionarietà dello spagnolo era diventata la visione del Barlettano.
Ma non solo di luce è fatta la fotografia; e anche il suo modo tutto sommato innaturale di restituire porzioni di immagine con nitidezza ed altre sfocate entra nella pittura, nel genere dove anche in fotografia di questa caratteristica tecnica si era già fatta dispositivo estetico: il ritratto. Sulla tela questo artificio si rende lasciando indefinite, quasi abbozzate, le parti a cui, come sulla lastra, non viene riconosciuta altra funzione che quella di dirigere lo sguardo verso dove l’autore vuole indirizzarlo; a guardarle con l’occhio rivolto al passato, queste tele danno l’impressione del non finito, ma anche in questo traspare una efficacia che racconta di una nuova sapienza.
Certo, prima o poi la fotografia deve fermarsi, alle soglie di uno spazio in cui la pittura lì sembra ancora una volta affermare la sua autonomia. E questo spazio è nell’ultima sala, quella dedicata al genio stravenato e dolente di Antonio Mancini. Ancora fuiguratività in bilico, ma questa volta sotto – è il caso di dirlo – la presenza grumosa e pastosa della materia pittorica, una “putrescenza radiosa”, un “succo vitale”, un “delirio cosmico”, come la definivano i critici secondo Dario Cecchi. Una matericità che anche qui sa di futuro, quello delle lave del napoletano Emblema, dei cretti di Burri o dei concetti spaziali di Lucio Fontana, di cui è presente in mostra anche una straordinaria testimonianza delle sue opere plastiche: una insospettabile quanto potente donna con fiore e due preziose formelle della Via Crucis di Milano. Ma qui l’Ottocento si è fatto modernità, contemporaneità quasi. Una contemporaneità che il passato trattiene con radici più forti di quanto forse ameremmo ammettere.
Napoli Ottocento
Roma, Scuderie del Quirinale
Via XXIV Maggio 16, 00187 – Roma
fino al 16/6/2024