Ci sono molte probabilità che gli anni che stiamo vivendo passeranno alla storia del gusto come quelli dell’”esteticità diffusa”. Quelli in cui la gradevolezza estetica è diventato un valore necessario perché ad una qualsiasi entità, animata o meno, possa essere attribuita una dignità condivisa.
La qualità degli oggetti che Kant chiamava “il piacevole” ha via via perso la sua ancillare ed opzionale funzione di innesco per l’esperienza estetica, ed è diventato il livello in cui si consuma completamente una pratica che tende ad esaurirsi nella risposta emotiva e idiosincratica del fruitore, ormai disposto a riconoscere agli artefatti la sola funzione di suppellettili della “domenica della vita” di hegeliana memoria.
Non che essere brutti sia un delitto, questo (ancora) no. Ma la piacevolezza è oggi il solo passaporto verso l’attenzione del prossimo, poco incline a cercare il valore (figurarsi la bellezza, con buona pace delle Avanguardie) nel diverso, nel difforme, nello sgradevole, nel repellente.
E così il premio per la miglior fotografia dell’anno è andato a questa immagine che già tutti chiamano la “Pietà di Gaza”. Espressione apparentemente innocua quanto scontata, ma che testimonia come lo scatto di Mohammed Salem – palestinese di Gaza – sia stato già stato manducato dalla sensibilità mainstream e rubricato nella sala appropriata del museo delle icone della nostra storia. E, in buona sostanza, disinnescato.
Forse è il caso di dire che la sincerità della foto e della sua realizzazione non sono in discussione; evitiamo di immaginare noi stessi sulla porta di quel stanzone, un pozzo di disperazione dove chissà quante e quanti come Inas Abu Maamar – la donna della foto – abbracciano i corpicini appena ricomposti dei loro figli e nipoti mentre i fotoreporter si aggirano tra loro a cercare lo scatto capace di far risuonare nel mondo le grida di quell’abisso di dolore. Evitiamolo perché non è ciò che importa in queste righe.
Ciò che qui interessa è il meccanismo che ha portato a scegliere come emblematica del conflitto una immagine che – si legge nelle motivazioni del premio – è stata “composta” (termine che guarda un po’ significa anche “educata”) con “cura e rispetto”. Una posa degna di un gruppo scultoreo neoclassico (gli scatti eseguiti da Salem prima e dopo questo non avevano tanta compostezza, occorre ammetterlo), con i colori complementari che danno il giusto contrasto tonale all’immagine (oltre che rimandare ad un’altra guerra in atto) e la fa risaltare sul bianco del sudario che avvolge il bambino in una semiotica di passione e morte riverberata dal marmo pulitissimo e sepolcrale del muro che fa da fondale alla scena.
Insomma quanto ci voleva per mettere in vibrazione le sensibili fibrille estetizzanti della giuria, che, ci dice la motivazione “è rimasta profondamente commossa dal modo in cui questa immagine evoca una riflessione emotiva in ogni spettatore”. Una motivazione che non solo ha la presunzione di conoscere le reazioni di “ogni spettatore”, ma che le individua in un strano ircocervo psichico: la “riflessione emotiva”? Occorre forse prendere atto che neppure l’attività cognitiva per eccellenza , la riflessione, è al sicuro dalla “Tirannia delle Emozioni”1.
Al di là delle frasi bislacche quanto sintomatiche, quello che occorre rilevare è che di tanto sangue versato in questi mesi in quella terra senza pace, neppure una goccia è arrivata sull’immagine che diventerà la nostra icona del conflitto. La figurativizzazione dello strazio che quel lenzuolo custodisce è lasciata, come si diceva un tempo, al “volenteroso lettore”.
Ormai non c’è oceano di lacrime che possa arrivare a bagnare le nostre anime. Che rimarranno all’asciutto almeno fino a che saranno al riparo dalla vista degli occhi che le versano.
“Cura e rispetto”, quindi. Verrebbe da chiedersi: per chi? E già, perché oltre all’età dell’estetismo questi sono anche i i giorni del “politicamente corretto”, pratica in cui si distilla l’idea ipocrita che per abolire la discriminazione, che poi è nient’altro che la percezione distorta di una differenza, basta far sparire le parole per nominarla. E questa immagine sembra fatta apposta per diventare virale aggirando le difese anticorpali dei social e garantire circolazione sicura in feed sempre più trasformati in salotti neo vittoriane, le cui conversazioni dimostrano come la violenza non si argina semplicemente limitando immagini e parole.
Chissà se queste omissioni ci faranno più buoni- E chissà prima di imparare a parlare l’Homo Habilis era incapace di odiare.
Le fotografie e le immagini di questa pagina, nel rispetto del diritto d’autore, vengono riprodotte per finalità di critica e discussione ai sensi degli artt. 65 comma 2, 70 comma 1 bis e 101 comma 1 Legge 633/1941.
- Prendo qui in prestito il titolo del recente saggio di Paolo D’Angelo, edito da Il Mulino[←]