Chi crede, come il filosofo, che sia un bene non moltiplicare gli enti praeter necessitatem, probabilmente penserà che l’autoritratto fotografico non sia un campo in cui è il caso di fare troppe distinzioni. Eppure all’interno del genere forse più praticato di questi anni una diversità profonda c’è: da un lato le immagini che una volta si ottenevano con treppiede e autoscatto e che oggi si realizzano soprattutto con la telecamera anteriore del telefonino puntata verso se stessi; dall’altro quelle che usano il riflesso su uno specchio o su un vetro.
La differenza è che, mentre nel primo caso l’autore sceglie di rappresentare se stesso come un soggetto ripreso – uno spectrum, per dirla con Roland Barthes -, nel secondo è il suo ruolo di operator a diventare materia per l’immagine. Non solo perché la macchina fotografica compare nel fotogramma1, ma anche e soprattutto perché, quando la sagoma altera il riflesso, lo opacizza, mostrando oggetti e particolari altrimenti invisibili, è il ruolo del fotografo come colui che “genera” l’immagine ad entrare tra gli elementi catturati dallo scatto.
E tuttavia la capacità di significazione dell’”autoritratto nel riflesso” può andare oltre, come ci racconta Mauro Quirini in questa immagine che condensa la parte essenziale della sua poetica: innanzitutto il paesaggio costiero che lo circonda e che – come sa chi conosce il suo repertorio – compare in gran parte dei suoi scatti, frutto di instancabili e premurose esplorazioni del lungomare di Ostia, alla ricerca della poesia che il Tirreno sussurra nel suo infinito respiro; e poi l’assenza dell’elemento umano, altro topos della sua fotografia, che risalta nel centro dell’immagine – quella apparsa proprio grazie alla sia silhouette – dove il corridoio in penombra si apre sul paesaggio attraverso il vetro di una finestra che ricorda una lente montata su un gigantesco obiettivo. E nel corridoio le due piante rievocano gli oggetti che Quirini accoglie nei suoi fotogrammi, quasi personaggi metafisici, tracce silenziose di un’umanità appena salutata o attesa da tempo.
Insomma un autoritratto che scopre del suo autore tutto quanto tranne il viso; ma per quello basta una macchina per fototessere; per svelare la propria idea di fotografia occorre qualcosa in più, una capacità di raccontare che nasce da un modo preciso e profondo di vedere il mondo. Forse il soggetto di un autoritratto nello specchio, quando riuscito, non è né specchio né la macchina e nemmeno la persona che la usa: è un modo di osservare.
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- capita che a volte il fotografo riesca ad comporre l’immagine in maniera da escludere il riflesso della fotocamera – ad esempio nella fotografia di Stefano Mirabella descritta in questo articolo[←]