“La fotografia […] fa appello alla sensazione di potere che si accompagna al nostro tentativo di ordinare e costruire il mondo circostante”. Alla metà degli anni Novanta del secolo scorso, quelli in cui Graham Clarke scriveva questa frase, la fotografia mobile non era ancora deflagrata e forse non era scontato prevedere che da lì a poco il nostro strumento per ordinare il mondo avrebbe avuto bisogno a sua volta di essere organizzato.
Oggi la “Furia delle Immagini” è tale che rischierebbe di sopraffarci se non tentassimo di imbrigliarne il flusso attraverso un sistema di argini. Di questo nuovo ruolo abbiamo investito quelle che con espressione già consunta dall’uso chiamiamo le “immagini iconiche”; raffigurazioni esemplari che sono diventate i nodi di una griglia pluridimensionale nelle cui maglie cerchiamo di irregimentare il caos inarticolato delle immagini che arrivano alla nostra percezione.
E anche se, per motivi di comodo, un’immagine che si disperde in un’icona al punto da potersi sottoporre ad essa è conveniente per la nostra capacità tassonomiche, dato che ci permette di risparmiare risorse cognitive nella sua gestione, le immagini pericolose, quelle che sembrano sfidare l’icona e problematizzarne il ruolo, finiscono per essere le più interessanti.
La fotografia che riprende la donna giapponese mentre fa il bagno alla figlia Tomoko, resa paraplegica dal metilmercurio che avvelenò le acque intorno al villaggio di Minamata, viene spesso definita come la “Pietà del XX secolo”. La comparazione chiama in causa una delle immagini più note della cultura occidentale, scolpita nel marmo di Carrara da Michelangelo Buonarroti negli anni tra il 14497 e il 1499. Ma a dispetto della fama e dell’importanza della sua icona di riferimento, questa fotografia proprio non ci sta ad esserne una semplice istanza.
Partiamo dai punti di contatto, quelli che giustificano il parallelismo: di sicuro l’impianto complessivo della composizione e la relazione di parentela tra i protagonisti della rappresentazione. Tra le concordanze non metterei la condizione della figura distesa; perché mentre il Cristo è morto Tomoko è ancora viva, anche se condannata ad una vita di sofferenza e difficoltà di cui sono testimonianze la postura contratta del corpo e quell’artiglio che Smith ha reso unico protagonista di un altro scatto di assoluta bellezza. Il dolore della Vergine è insomma un dolore acuto, che il Buonarroti stempera in una sorta di olimpica tristezza, secondo la apollinea retorica rinascimentale. Quello della donna giapponese possiamo immaginarlo di un tipo più cronico, sordo, continuo, fatto di strazio per il presente e timore per il futuro. E qui la resa del fotografo statunitense è impressionante; tutti questi sentimenti – difficile pensare che non affollino il cuore di una madre di un disabile – si sublimano in uno sguardo che emana puro amore, quello disinteressato e invincibile delle madri, una tenerezza che se è possibile è amplificata dal fatto che lo sguardo della figlia non incontra quello della madre, al punto che è lecito chiedersi se Tomoko si renda conto della sua presenza. Ma, si sa, solo l’amore di una madre ha qualche possibilità di attingere ad una forma pura, che si nutre di se stessa e non chiede ricompensa.
Una inesauribilità di affetto che Rilke immaginava irradiarsi dagli occhi della della madre di Martin Laurids Brigge:
O madre: la sola ad aver disposto in altro modo tutto questo silenzio, durante l’infanzia. A essertene fatta carico dicendo: non temere, ci sono qua io. Ad avere l’ardire di personificarlo nottetempo per chi ne ha timore, per chi ne è mortalmente angosciato. Tu accendi un lume e già il rumore sei tu. E quando lo tieni innanzi a te conclami: sono io, non avere paura. E quando lo posi lentamente, non c’è più alcun dubbio: sei tu, sei la luce attorno alle cose consuete e amiche, che senza significati indecifrabili stanno, buone, semplici, chiare. E se qualcosa corre sulla parete o muove passo nel solaio, tu sorridi soltanto, sorridi, sorridi diafana sullo sfondo chiaro verso il volto impaurito che scruta nel tuo, quasi tu fossi una cosa sola, per intesa segreta, con ogni rumore smorzato. Esiste sulla terra un potere equiparabile al tuo? R.M. Rilke, I Quaderni di M. L. Brigge, 1910
Sarebbe forse il caso di chiuderla qui ma il formidabile passaggio appena citato stimola un’ultima considerazione analitica: nella scena notturna di Rilke, il potere dello sguardo della madre si fonde con la luce; la stessa luce che illumina – ma che viene da dire “emana” – il volto della madre di Tomoko e si spande amplificandosi sul viso della figlia; un chiarore reso ancora più splendente dalla sinfonia di ombre che Smith gli ha costruito intorno. Arthur Danto si chiedeva se le ombre appartengano o no alle statue su cui si posano; nella fotografia almeno questo dubbio non si pone.
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[Commento al post Facebook di Angelo Raffaele Turetta]
Non ho mai troppo volentieri paragonato questo capolavoro di Smith all’altro sublime capolavoro del Buonarroti, il paragone viene a mio parere dalla postura della madre con la povera Tomoko e dagli sguardi simili, anche la bambina ha lo stesso del Cristo morto. Smith vide la scena nel bagno della casa, non contento fece costruire la vasca illuminata caravaggescamente (perdono per il vocabolo) in uno spazio buio, la madre entrò nell’acqua e qui cambia la storia, l’acqua simbolo di nascita e non di morte, e il punctum di tutta l’immagine la mano rattrappita di Tomoko sapientemente stagliata sul riflesso e lo sguardo della madre non di dolore ma un accennato sorriso di amore. Un mio punto di vista. Saluti