Il grumo della pennellata sulla tela; il solco della penna sul foglio; il “domani” che segue il “ci vediamo” nel nostro messaggino. Sono tracce del momento della produzione che in maniera più o meno consapevole restano impigliate nelle maglie di un testo scritto o visuale e che, con la sua indulgenza verso le espressioni esoteriche, la semiotica le chiama “marche dell’enunciazione”. Anche la fotografia ha i suoi modi per far trapelare in maniera più o meno ortogonale il contesto della sua realizzazione, ad esempio la classica ombra che il turista proietta sulla fidanzata in posa sul belvedere o il riflesso nelle vetrine o nelle pozzanghere che molti fotografi usano a mo’ di firma nei loro scatti. La fotografia di John Menapace non mostra nulla di tutto questo e a prima vista sembra l’esempio meno adatto per scrivere di tali questioni. Le cose iniziano a farsi più chiare non appena si fa caso al fatto che l’immagine è stampata al contrario. Che la circostanza sia frutto di un errore (in questa forma appare su un libro e in una mostra antologica del 2006) o di una scelta calcolata poco importa in ciò che di essenziale essa ha da ricordarci: la fotografia è un artefatto frutto di un processo che si estende ben oltre i pochi centesimi di secondo necessari per impressionare il supporto fotosensibile. Ed in ogni fase di questa procedura l’autore può depositare qualcosa che lega il prodotto finale al momento della sua esecuzione. Ma non è finita qui: un’altra “marca”, nascosta in piena vista è nel soggetto in primo piano, l’anziano signore dai lunghi capelli bianchi che altri non è che lo stesso Menapace, di schiena davanti al suo obiettivo ad ipostatizzare il ruolo del fotografo, un osservatore non osservato che conserva un suo battito di ciglia tra i cristalli di alogenuro di una pellicola o nei fotodiodi di un sensore. Perché forse è vero e forse no che la fotografia è di per sé e “in toto” una marca dell’enunciazione, come si dovrebbe concludere a seguire i ragionamenti dei paladini della sua natura indicale; resta comunque il fatto che non esiste forse altro mezzo per comunicare con maggiore immediatezza la nostra “visione”. Con la speranza, ovviamente, che valga la pena condividerla.
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