Un seguace ingenuo dell’inconscio tecnologico potrebbe essere tentato di interpretare questo verso come il pensiero di un obiettivo fotografico che sta riprendendo una scena dopo essere stato messo a fuoco sulla distanza iperfocale. Chi dovesse invece ritenere che questa visione dell’immortale lirica di Ungaretti sia una stupidaggine sesquipedale sappia che ha tutta la mia comprensione. Visto che siamo qua, però, possiamo magari procedere un poco oltre. Nel testo che segue ho messo un paio di note (vabbè, cinque) per chiarire alcuni punti senza appesantire più del necessario un discorso di per sé già abbastanza ominoso. Se daranno l’impressione di una puntuta saccenza me ne scuso. Purtroppo è un male di cui soffro.
Innanzi tutto il verso rappresenta un testo linguistico[1] che connette due sfere concettuali prossime ma indipendenti: quella ottica e quella spaziale. Per rendersi conto di quanto questi ambiti concettuali siano svincolati tra loro basta ripetersi questo verso mentre si ricorda l’esperienza della visione di un cielo stellato in una notte senza luna e in un punto privo di tracce di inquinamento luminoso. L’impressione di immensità è, credo, molto forte anche in presenza di un numero bassissimo di fotoni circolanti.
L’accostamento dei due sintagmi[2] rende la frase un punto di irradiazione di una galassia di significati (tra i quali quello bislacco in esordio è uno non certo tra i più acuti), dei quali solo alcuni si possono ricondurre alla combinazione meccanica dei significati letterali dei singoli termini. Quest’ultima combinazione è di solito indicata con il termine di “denotazione”, mentre alla galassia di cui parlavo prima viene dato il nome di “connotazione”[3]. Cominciamo ad addentrarci in questa zona magmatica quando ad esempio ci chiediamo: di cosa ci illuminiamo sotto la scura volta di un cielo stellato?
Ora, esisteranno sicuramente testi (magari anche linguistici) a “grado di connotazione zero” vale a dire capaci di esprimere solo contenuto denotativo[4]; il problema però è che questi testi ci dicono poco, mentre noi siamo affascinati dai testi ad altro grado di connotazione proprio per la loro natura polisemica e la capacità di incarnare (o di darci l’illusione di incarnare, che poi è la stessa cosa) elementi del nostro vissuto. Capire quale sia la causa di questa complessità non è più semplice che indagarne gli effetti. Gli strumenti con cui ci aggiriamo nella nebbia della connotazione (semiotica, filosofia, antropologia, sociologia, neurologia, psicologia, linguistica, retorica, …) illuminano ciascuno una porzione di questa nebulosa e solo considerando tutti i tasselli che ciascuno di questi arnesi ci mette a disposizione di riesce ad ottenere l’impressione di vedere di una figura emergere dalla foschia.
Da ciò deriva che un testo ad alto grado di connotazione (come ad esempio una fotografia ben riuscita) non è solo un insieme di stimoli percettivi, o un’espressione di un fenomeno sociale o un reticolo formale su cui proiettare le nostre dinamiche affettive. E’, in misura diversa, tutte queste cose a altro ancora.
E, assodata la parzialità di un approccio basato su un singolo strumento, è anche vero che esistono aspetti che a ciascuno di noi piace di più indagare rispetto ad altri; chi è interessato agli aspetti formali può essere meno affascinato dallo studio del versante sociale; a chi piace occuparsi di questioni neurofisiologiche e percettive è magari meno preso dagli elementi storici e così via.
Nessuna la lanterna può fare da sola una luce definitiva e forse nemmeno la luce di tutte le nostre lampade ci permetterà di distinguere dei contorni netti. Ma questo non rende l’impresa di illuminare un testo meno affascinante e intrigante. Almeno ai nostri occhi.
Insomma per concludere come abbiamo iniziato: “naufragar m’è dolce in questo mare”
[1] l’aggettivo si rende necessario dato che non tutti i testi sono “linguistici”, se si intende come testo un sistema di segni e come segno un oggetto in grado di mettere in contatto un piano dell’espressione, formato di particolari oggetti che permettono la comunicazione sensibile, con un piano del contenuto, di natura puramente concettuale.
[2] con sintagma si intende, com’è noto, una unità sintattica dotata di significato autonomo.
[3] https://www.treccani.it/vocabolario/denotazione/ . Vale appena la pena di accennare che al significato connotativo contribuiscono in maniera essenziale fattori di tipo storico e culturale, oltre che soggettivo ed affettivo, che rendono questa galassia semantica estremamente fluida e nebulosa.
[5] l’esempio che viene portato spesso è quello di un testo rappresentato da una sequenza di segnali semaforici, generato quindi da un particolare dispositivo di significazione detto “sistema simbolico”, caratterizzato da una conformità tra piano dell’espressione e piano del contenuto (per approfondimenti sui sistemi di segni https://ww.pietropolidoro.it)