Nel suo recente intervento – non credo si possa chiamarla “intervista” – in una trasmissione televisiva, il Papa ha denunciato la scarsa empatia suscitata dalla visione dei fatti del mondo che ricaviamo attraverso i mass media. Di contro Bergoglio ha indicato il tatto come senso capace di creare pieno coinvolgimento in quanto si percepisce.
A prima vista sembra una riproposizione in chiave etico-postmoderna della centenaria disputa sul primato dei sensi, gara che a dire il vero si è conclusa quasi sempre con la vittoria della vista a parte qualche raro exploit dell’udito. Al tatto quasi sempre tocca disputarsi il cucchiaio di legno con il gusto e l’olfatto. Quella papalina sarebbe quindi una classifica per certi aspetti rivoluzionaria, che nei commenti ha chiamato in causa il match evangelico tra i due sensi, l’episodio giovanneo dell’incredulità di San Tommaso.
Prima di varcare queste mistiche soglie dell’ermeneutica, vale forse la pena di rilevare una imprecisione di metodo nell’analisi di Bergoglio. Infatti quello che a prima vista sembrerebbe un confronto tra i due sensi e le loro capacità di offrire fragranti percezioni del mondo, in realtà è una comparazione tra due contesti di percezione. A differenza di quanto è accaduto per gli altri tre sensi, per la vista e l’udito sono stati messi a punto nei secoli vari strumenti di sollecitazione sintetica: telefonia, grammofonia, pittura, fotografia, cinematografia, televisione.
Meccanismi che funzionano “in absentia” e che producono percezioni che, per dirla con Benjamin, sono “non auratiche” o, nei termini più generali della fenomenologia recente, si innescano in assenza di “atmosfera“. Manca, in poche parole, l’interazione dell’ambiente originario con la “bolla” che i nostri sensi proiettano intorno a noi attivando quello che Merleau-Ponty chiama “il sensorio comune“. Si creerebbe la stessa situazione se si inventasse una pillola in grado di generare un’accurata riproduzione del.gusto della amatriciana: c’è da scommettere che la sua assunzione non accompagnata dal profumo della pietanza e dalla vista del piatto (per tacere della sensazione tattile della pasta sul palato) sarebbe molto meno gratificante di una gastronomica lotta con un bel piatto di rigatoni.
Il paradigma (audio)visivo realizza la proiezione di uno spazio sensoriale pentadimensionale in uno che di dimensioni al più ne ha due. Proiezione tra l’altro parziale dato che le tre dimensioni fisiche sono ridotte a due, per non parlare della rettangolare limitazione imposta al campo visivo. “Toccare” un barbone, come invita a fare il Papa, significa – oltre che guardarlo da vicino – sentire l’afrore della sua pelle, percepire il tanfo di urina emanato dai vestiti, respirare il suo alito vinoso e ascoltare le sue parole. Tutte cose che il più potente e megapixellato dei sensori di oggidì non è capace di portare con sé.
E quando noi guardiamo una fotografia l’atmosfera con cui ci confrontiamo è appunto quella generata quel pezzo di carta, con il suo odore argentico o baritato e la leggera porosità. oppure il leggero ronzio e la meno che tiepida emanazione dei led di un monitor.
Certo, si dirà che la “buona” fotografia riesce tramite l’intervento autoriale a indurre queste percezioni sinestesiche. Sarà. Ma resta sempre una pallida evocazione, per di più mediata dalla. nostra esperienza, che spesso finisce a sua volta compressa sui soli valori estetici. In fondo, come disse Kandinskij si può osservare la strada stando dietro il vetro della finestra […] oppure si apre la porta: si esce dall’isolamento; ci si immerge in questa entità, vi si diventa attivi e si partecipa a questo pulsare della vita con tutti i propri sensi.